Sarei portato a dire che
Tempo di uccidere (1947) di Ennio Flaiano sia un romanzo
sui generis, per quanto l’espressione possa forse risultare generica e tecnicamente imprecisa; ma non è mio intento proporre qui una critica letteraria al testo, quanto piuttosto sottolineare la rilevanza di alcuni aspetti dell’organizzazione psicologica del protagonista efficacemente descritti dall’autore. La particolarità del romanzo, da questo punto di vista, risiede nella brillante e del tutto naturale capacità di Flaiano di narrare la vicenda attraverso il filtro dell’esperienza interiore di uno psicopatico, condizione psichica solitamente piuttosto lontana da quella in cui la maggior parte di noi si trova abitualmente a vivere (se non altro perché la rimuove).
Si tratta della storia di un ufficiale italiano impegnato nella campagna d’Etiopia (1935-1936), un ristretto angolo della quale, nei dintorni di Massaua, ne costituisce l’inospitale cornice, con la sua natura ostile e arida e gli spigolosi «alberi di cartapesta». Il contesto reale è tuttavia solo un pretesto, o meglio un elemento dello sfondo che sta lì a rappresentare metaforicamente la condizione interiore del protagonista, dominato da una sensazione di morte che pulsa potentemente appena sotto la coscienza e vorrebbe manifestarsi.
Flaiano ci presenta all’inizio il militare in preda ad un ostinato mal di denti che lo rende insensibile alla difficile condizione di vita che caratterizza, in quella terra primitiva, chiunque lo circondi. Nella prima parte del libro la mente del protagonista è dominata da un unico pensiero fisso: togliersi quel dannato molare. Quel dolore che torna ritmicamente tra un analgesico e l’altro può essere tuttavia considerato il segnale di un malessere più profondo, una malattia dell’anima che gli impedisce di
tollerare la sofferenza e di condividere emotivamente con gli altri la fatica dell’esistere. Il prossimo è percepito solo come un ostacolo ad una serenità tanto agognata rappresentata da un legame idealizzato, astratto, fatto solo di ipotesi e parole che il protagonista mantiene, attraverso uno scambio epistolare, con una donna rimasta in Italia (“Lei”, con l’iniziale maiuscola, così egli la chiama per quasi tutto il romanzo, prima di presentarcela velocemente nella parte finale del libro).
Il titolo del romanzo,
Tempo di Uccidere, si ricollega alla coazione del protagonista a passare all’azione violenta volta all’eliminazione (fisica innanzitutto, ma anche emotiva) di chiunque si frapponga fra lui e il suo specifico bisogno, qualunque esso sia: togliersi un dente dolorante, nascondere un delitto, tornare in Italia, celare agli altri la propria cattiva condizione di salute. Un impulso che si scatena in modo assolutamente imprevedibile in un individuo che fino a quel momento non aveva mai dato segni di squilibrio, almeno per quello che si può intuire dalla storia.
Con uno stile di scrittura diretto e incalzante, ma che sa ben sondare in profondità quando necessario, Flaiano getta violentemente il lettore nel
mondo paranoico e onnipotente di questo militare, rendendo bene l’idea di quanto l’incapacità di tollerare il dolore proprio e altrui costituisca il nucleo psichico del bisogno di usare violenza nei confronti degli altri. A questa incapacità si associa la tendenza a percepire la realtà che lo circonda (umana, animale, vegetale) come un’entità inanimata con la quale non è possibile stabilire alcun contatto emotivo («poco più di un albero, poco meno di una persona», definirà il protagonista la donna che aveva ucciso). Ma proprio quello scarso legame empatico con l’altro ogni moto affettivo verso gli altri e dagli altri viene considerato un semplice «impulso infantile dell’animo» da negare e sopprimere crea le condizioni per agire in una sorta di automatismo comportamentale in cui l’intenzionalità e la coscienza sono molto labili, quasi che le azioni non fossero veramente proprie ma vissute «dall’esterno», prive di una significatività soggettiva profonda, decise da un destino di cui il soggetto si trova ad essere solo uno strumento senza alcuna possibilità di controllo. Gli altri sono considerati dei meri «giocattoli», «pietre», semplici oggetti che ostacolano gli scopi che di volta in volta l’io del protagonista si pone, in particolare il ricongiungimento con «Lei», questa donna misteriosa e irreale che potrebbe rappresentare una sorta di madre archetipica capace di infondere calma e dalla quale non è tollerata la distanza, pena lo scatenarsi di una lucida e imprevedibile furia omicida. [1]
Trovarsi immersi nella psicologia angosciata ed eccitata del protagonista, nella sua onnipotenza e nei suoi silenti deliri di morte, è esperienza difficile da metabolizzare per il lettore. Il ribrezzo per la feroce meschinità di cui può essere capace un essere umano verso i propri simili («Mi compiacevo dunque di averla uccisa. E non ricordavo più il lungo lamento che le era sfuggito quando avevo preso la mira, quell’accorato lamento strappato dalla paura e dall’incredulità»), si alterna nel lettore all’interesse e a volte perfino alla compassione per l’angoscia, la debolezza e l’immaturità emotiva che dominano il mondo interno del protagonista.
Un uomo che si ritiene capace di tutto, come un animale ferito, ma allo stesso tempo debole e
incapace di perdere qualcosa, di rassegnarsi ad una sconfitta, di lasciare ciò a cui si ritiene anche solo temporaneamente legato («Non possono uccidermi, debbo vivere. Voglio vivere fino all’ultimo momento. Non posso lasciare il cielo, anche se è un cielo di piombo come questo, non posso lasciare nulla, nemmeno questo cespuglio, nemmeno i giorni più mediocri e le notti più cupe, o le persone che odio: nulla»). Un’incapacità di rassegnarsi alla perdita che forse trae nutrimento anche dalla dolorosa consapevolezza dell’assurdità della vita: «mi chiedevo se era quella la rassegnazione, quel vuoto aspettare, contando i giorni come i grani di un rosario, sapendo che non ci appartengono, ma sono giorni che pure dobbiamo vivere perché ci sembrano preferibili al nulla» e coerentemente con le teorie psicoanalitiche che ipotizzano una connessione diretta tra le manifestazioni psichiche e il corpo negli stati mentali più regrediti in cui la mente, sopraffatta dalle emozioni e incapace di contenerle e significarle, si arrende e lascia parlare il soma attraverso dolori e malattie l’autore, con geniale sforzo di trasposizione, riesce a darci il quadro di un’esperienza psichica al limite del dicibile che finisce infine per coinvolgere anche la dimensione somatica del protagonista, un’esperienza ben descritta da Flaiano attraverso i monologhi deliranti dell’ufficiale, le sue mortifere allucinazioni olfattive, la serrata descrizione di un graduale franamento psichico (in senso delirante-paranoico) e corporeo (la misteriosa affezione, forse lebbra, da cui verrà colpito).
Ne viene fuori una trama puntellata da accadimenti estremi ma sempre molto coerenti e realistici, situazioni che nel loro scatenarsi fulmineo, che rispecchia il funzionamento primitivo della mente del protagonista, hanno l’effetto di altrettanti schiaffi nei confronti dell’ingenuo lettore e del suo mondo di rassicurante normalità. E tuttavia non sono i fatti che qui interessano, che poi in realtà sono anche pochi (in un racconto che si svolge sempre in un ristretto perimetro spaziale e temporale), quanto il modo in cui certe idee nascono e si deformano nel teatro mentale del protagonista, uno scenario psichico fatto di pensieri paranoici che generano angoscia, di delitti e azioni impulsive per tacitare quei pensieri, di conseguenti sensi di colpa negati e gradualmente trasformati in preoccupazioni corporee, in ulteriori elementi persecutori esterni o in inquietanti allucinazioni.
Credo che Flaiano riesca a dirci proprio questo: che l’incapacità di reggere e
dare senso alla tensione psichica (l’angoscia, il senso di colpa, la depressione) genera quelli che potremmo definire i “mostri della ragione”, cioè quei sistemi lucidi e apparentemente adattati di pensieri e comportamenti che deformano gradualmente il rapporto di un individuo con la realtà generando violenza, crudeltà, senso di persecuzione, alterazione del rapporto col proprio corpo, uso dell’altro come un oggetto inanimato alla cui esplosione improvvisa, nella nostra banale quotidianità, sempre più spesso oggi assistiamo esterrefatti. [2]
Nella contemplazione finale dell’esistenza solitaria e sofferta dell’unico vecchio abitante di uno sperduto villaggio della boscaglia in cui il protagonista, alla fine della storia, trascorrerà quaranta giorni da fuggiasco in precarie condizioni di salute destinato a passare gli ultimi anni della sua vita in quella solitudine ostile assolvendo mestamente le piccole incombenze quotidiane e pregando per i propri cari (gli ultimi abitanti del villaggio da lui stesso sepolti), trapela per un attimo nel protagonista la fugace consapevolezza della necessità di una reciproca appartenenza tra i vivi (e tra i vivi e i defunti) per riappropriarsi del senso più vero dell’essere uomini. Quella «saggezza naturale inconsapevole» mostrata da quell’uomo anziano così autenticamente morale e coraggioso che il nostro ufficiale, travolto da meccanismi mentali incontrollabili, sente invece di aver definitivamente perduto.
* Saggio menzionato al concorso Lorenzo Montano 2016, sezione “Una prosa inedita”.
[1] Del nostro militare noi non conosceremo mai il nome: forse Flaiano usa questo espediente per ridurre il senso di umanità dello stesso. È un soggetto senza nome e senza storia, un confuso coacervo di impulsi.
[2] Diceva Goya che è il “sonno della ragione” a generare mostri. Qui si vuol rivedere in parte questa concezione, insistendo invece sul fatto che la ragione stessa (la mente razionale), se non sorretta da un adeguato apporto emotivo-fantasmatico, se non capace di integrare e significare le emozioni e le pulsioni più difficili da gestire, a lungo andare genera altrettanta mostruosità, distorcendo pesantemente il rapporto dell’individuo col mondo e la sua capacità di parteciparvi empaticamente. In altre parole, si vuole qui sottolineare che, al di là delle apparenze, è il sonno delle emozioni che genera i mostri della ragione.
Francisco Goya, El-sueño de la razón-produce monstruos, 1797